Dopo aver discusso fenomeni antichi come storia e origine delle gare di atletica, vorremmo soffermarci sul futuro di questa pratica sportiva.
Vorremmo farlo dedicando un approfondimento a un caso che ha scosso l’opinione pubblica e ha addirittura dilaniato l’ambiente degli osservatori di gare sportive: quello dell’atleta sudafricana Caster Semenya.
Un ritiro che fa rumore
Questa ventottenne, al top della forma fisica, ha da poco annunciato il suo ritiro. Anche se medagliata (ha vinto l’oro negli 800 metri ai Mondiali di Berlino del 2018) non è molto famosa per le sue imprese sportive, ma il suo annuncio ha fatto comunque scalpore.
Questo perché Caster Semenya è stata “condannata” dalla IAAF, l’Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera, a ridurre i propri livelli di testosterone attraverso una procedura medica. Piuttosto che ubbidire, la sportiva ha deciso di rinunciare a gareggiare.
La polemica sul genere nello sport
Un piccolo passo indietro è necessario. Caster Semenya è una donna che produce livelli di testosterone superiori alla media.
Esistono diverse atlete con la sua stessa condizione, ma Semenya è diventata il simbolo dell’intera categoria: maggior testosterone equivale a migliori prestazioni, perché il corpo della sportiva reagisce e si comporta come un corpo maschile. Più veloce, più forte, più resistente. Quindi, secondo la Federazione, con un vantaggio rispetto a chi non produce la stessa quantità di ormone.
Dopo anni di ricorsi e segnalazioni, la IAAF ha deciso che questa naturale disposizione vada corretta chimicamente. Da un punto di vista etico non è diverso da un “doping al contrario”. Per questo motivo ci trova profondamente contrari.
Bene ha fatto Caster Semenya a fare un passo indietro davanti all’assurdità e all’invasività della decisione della IAAF. Eppure la sua non è una soluzione, perché esistono altre atlete con la stessa condizione, oltre a quelle che sono effettivamente transessuali. Nate in un corpo sbagliato, hanno affrontato un lungo percorso clinico e chimico per diventare donne (e ci sono casi anche all’opposto, di sportive donne divenute uomini).
Una riflessione
Il caso Semenya ci porta a una domanda spinosa: come dovremmo considerare le diversità di genere nello sport? E anche, dovremmo cominciare a prevedere una terza categoria oltre allo sport maschile e femminile?
Nel caso della seconda questione, ci sembra assurdo: ghettizzeremo persone che nella vita hanno sofferto già a sufficienza, e che hanno intrapreso un cammino complesso e doloroso per essere uguali agli altri.
D’altro canto, la decisione della IAAF è troppo dura: non tutte le atlete con la stessa condizione di Semenya, o quelle trans, diventano campioni del mondo o eccellono nella loro disciplina. Molte anzi rimangono sconosciute, a testimonianza che i risultati non dipendono solo dal corpo ma anche dalla motivazione mentale.
Non abbiamo tutte le risposte, ma al momento ci sembra che la IAAF e il CIO stiano facendo ciò che l’atletica non ha mai fatto in tanti millenni: discriminare.